Titolo: Moonstone
Saga: Ciara&Sawyer #1
Autore: Gina Laddaga
Editore: Edizioni Il Pavone
Collana: Parole Indipendenti
ISBN: 9788896425442
Prezzo: € 3,99 epub-mobi, € 7,99 pdf
Genere: Romanzo urban-fantasy
Data di pubblicazione: 12 febbraio 2012
Ciara è una ragazza di origini americane, ma ha sempre vissuto nell'antica Montepulciano, cittadina in Toscana con i genitori e la nonna materna. Quando i genitori devono trasferirsi in America per lavoro e lei decide di restare con la nonna in Italia, incontra un ragazzo con le sembianze di "un dio delle nevi" che appare quando Ciara, forte ed indipendente di natura, si ritrova in strane e pericolose situazioni. Lei non capisce perché, ma l'apparizione del ragazzo è sempre preceduta da quella di un lupo bianco, tanto che ne viene quasi ossessionata. Sawyer, è questo il nome del bel ragazzo, si innamorerà di lei e la trascinerà nel suo mondo, un mondo popolato da lupi, pietre di luna e faide familiari. La ragazza per seguire il suo amato dovrà fare delle scelte: scelte che coinvolgeranno anche persone a lei care.
Ciara e Sawyer sono legati fin dalla nascita, la verità deve essere svelata ai giovani amanti. Sarà una verità scomoda?
La trilogia di Caira&Sawyer:
- Moonstone
- Moonglow
- Moonlight
Potete acquistare il romanzo presso più siti internet autorizzati alla vendita di ebook! Io vi lascio il link di Amazon (basterà cliccare qui) e il link di Kobo (che trovate cliccando qui) :)
Inoltre, ecco anche i contatti dell'autrice:
- Being Gina Laddaga, il blog
- @ginaladdaga, l'account Twitter
- Gina Laddaga (Scrittrice), la pagina Facebook
Il prologo e il primo capitolo
Prologo
Con mano tremante, presi in mano il coltello stringendolo forte per il manico.
Mi avvicinai ai tre lupi e istantaneamente il lupo bianco mi guardò con i suoi occhi azzurro ghiaccio.
"Come faccio?" domandai a me stessa "COME FACCIO?"
Primo capitolo
La prima nevicata invernale a Montepulciano - cittadina Toscana circondata da cinta murarie e fortificazioni datata intorno al 1500 - dopo anni di inverni miti, si presentò inaspettata e molto abbondante.
Si formarono strato di ghiacciaio, per colpa della bassa temperatura, che rendevano scivolosi i marciapiedi, le pendenze e le scalinate dei palazzi in Piazza Grande.
I bambini erano eccitati: di pomeriggio tiravano fuori gli slittini colorati, usati nelle loro vacanze in montagna - qui non nevicava quasi mai - e a coppie scendevano le ripide discese del Corso.
Era quasi impossibile arrivare a piedi in centro, percorrendo le antiche salite ripide. Eppure quella sera dovetti percorrere quasi tutta la strada a piedi - gli autobus che portavano in Piazza Grande dopo le 20.00 non viaggiavano più. Tantomeno con la neve.
Lavoravo nel bar accanto al Palazzo Comunale e il mio turno iniziava ogni sera alle 22.00; questo voleva dire che per arrivare in orario ero partita, quella sera, circa un'ora prima da casa mia, per camminare lentamente nei miei Moon Boot azzurri ed evitare di rompermi l'osso del collo.
Vivevo con mia nonna Lisa da quando i miei genitori si erano trasferiti in America. Mia madre Stella era toscana, ma mio padre Steven era del New Jersey. Si erano conosciuti a Tijuana in Messico, entrambi in vacanza, e da quell'amore nacqui io.
Dopo essersi spostati a Las Vegas e dopo la mia nascita, mia madre decise di tornare in Italia e mio padre la seguì: si sposarono anche in Toscana.
Per quanto mi riguarda, avevo visto l'America solo dall'interno del ventre materno, quindi era come se non la conoscessi. Avevo deciso di restare a Montepulciano con mia nonna materna. Io l'adoravo e lei adorava me.
Mia madre, casalinga frustrata, aveva insistito fino allo stremo delle sue forze psichiche purché li seguissi in America: mio padre, psicoterapeuta, era riuscito a trovare lavoro in un centro di detenzione minorile a Belvidere, nel New Jersey - da anni bramava quel lavoro - e voleva trasferirsi. Mia madre voleva seguirlo naturalmente, ma io no. Sentivo che il New Jersey non era casa mia. Montepulciano sì.
"Tesoro, tuo padre può finalmente ritornare nella sua città. Lui ha rinunciato a tutto per noi due e tu vuoi restare qui? Il New Jersey ti piacerà! Potresti anche iscriverti al college, ad Oxford. Noi ci trasferiamo proprio nelle vicinanze di quella città. Hai 17 anni e papà potrebbe..."
Zittii mia madre in un istante, mentre mia nonna ci guardava discutere sogghignando.
"Mamma, ti ho detto che voglio rimanere qui con la nonna. L'America per me è sconosciuta, non importa che io abbia mezzo sangue americano e che sia nata nella patria del gioco d'azzardo. Ho vissuto per 17 anni qui e non intendo andare al College o all'università che sia. Voglio diventare indipendente e vivere qui, solo grazie alle mie forze!"
Il discorso era perfetto. Avevo una certa predilezione nel chiarire le mie posizioni: mio padre diceva sempre che avrei potuto fare qualsiasi lavoro volessi. Secondo lui avrei potuto anche entrare in politica. Idea che a me faceva solo ridere.
Lui arrivò alle mie spalle e mi baciò la nuca, accarezzandomi i capelli mossi. Lo guardai con i miei occhi grigioblu, occhi ereditati da lui, con cui mi ricambiò l'occhiata. Somigliavo molto a mio padre. A parte gli occhi dello stesso colore, ero mora come lui, dalla corporatura snella e molto alta. Non arrivavo al metro e ottantacinque di mio padre, ma comunque sfioravo il metro e settantacinque. Ero stata la più alta della classe fin dalle elementari e sia nei banchi che nelle file per andare in mensa, ero sempre l'ultima in fondo.
Mia madre diceva che sembravo molto americana, a parte la carnagione chiara che avevo preso da lei. Mi ripeteva che ero stata contaminata dalla sua parte toscana che odiava, ma io quella parte toscana l'amavo.
"Stella, se Ciara vuole rimanere qui, non vedo perché tu debba opporti. È grande e tra poco diventerà maggiorenne, quindi può decidere da sola" mio padre mi strinse per la vita e mi baciò ancora la nuca "Se tua madre non ha nulla in contrario, rimarrà con lei a Montepulciano"
Mio padre viveva da così tanto tempo in Italia, che il suo accento del New Jersey era sparito, lasciando spazio a quello toscano.
Mia madre restò inebetita - per una volta mio padre le era andato contro - e fissò sua madre con sguardo acido. Mia nonna, che era rimasta seduta accanto al caminetto del soggiorno, alzò il viso dai ferri da maglia, con cui stava facendo una sciarpa e fissò prima me, poi mio padre ed infine si soffermò su mia madre, che sembrava volesse incenerirla con lo sguardo.
"Santi lumi, Stella! La tua aura è davvero scura!"
Io e mio padre ridemmo sotto i baffi. Ero sicura che mia nonna non avrebbe detto di no.
"Ciara può rimanere con me per tutto il tempo che vuole, o comunque finché io avrò aria nei polmoni"
Mi staccai da mio padre e corsi verso mia nonna.
"Nonna, ti adoro!"
Sentii mia madre borbottare imprecazioni a bassa voce e poi, dopo aver fatto un grosso respiro, rispose: "Sono sicura che sarai tu a seppellirci tutti!" e detto questo uscì dal soggiorno, seguita da mio padre che, prima di uscire dalla stanza, ci fece l'occhiolino.
"Cavolo, era davvero nera!" dissi a mia nonna quando restammo sole.
Mia nonna scostò dalla spalla i suoi lunghi e ondulati capelli - simili ai miei, se non fosse per il colore grigio che ora avevano i suoi - e sorrise.
"Forse non proprio nera, lei è una persona buona, ma era molto arrabbiata" e sospirò "Le passerà, semplicemente perché ti vuole bene".
E così eccomi dopo quasi cinque anni a Montepulciano, con due lavori e una vita normale vivendo con mia nonna materna.
La casa era fuori dalle cinte murarie, vicino a Sant'Albino e quasi in campagna, quindi per raggiungere il centro dovevo usare i mezzi di trasporto o la mia auto.
Quella sera di Gennaio, mi aveva dato un passaggio il marito della mia vicina di casa fino all'autostazione e poi avevo fatto a piedi il resto della strada. C'era il divieto di transito alle auto senza permesso, nel centro di Montepulciano. Il Sindaco diceva: "Per diminuire lo smog" ma io ci credevo poco.
La mia auto era ferma all'officina Carrera. Paolo, il meccanico, non aveva il coragio di mettere le mani sulla mia auto americana, quindi nei pomeriggi liberi ci provavo io con l'aiuto di suo figlio Silvio. Un ragazzo alla mano e molto premuroso nei miei confronti.
Paolo, quando avevo portato la mia Plymotuh Valiant color carta da zucchero - un regalo esoso di mio padre per i miei 18 anni - aveva sgranato gli occhi e il suo viso aveva cambiato colore: da rosa pallido a rosso vinaccia.
"Ma è davvero una..."
"Playmouth Valiant del 1976, direttamente dalla Contea di Warren, nel New Jersey?" finii la sua domanda, notando che gli si era quasi annodata la lingua dall'emozione "Certo che lo è!"
Paolo iniziò a guardarla da cima a fondo, come se fosse un quadro mai visto del Botticelli. Anche se la sua espressione sembrava ricordare "L'urlo" di Munch.
"E cosa gli è successo?"
"Carburatore se non sbaglio, poi freni che non vanno come dovrebbero e qualche pistone o bobina..."
Paolo smise di fissare la mia auto e iniziò a fissare me.
"Oh Ciara, io non me la sento di mettere le mani su un veicolo del genere. Insomma, non mi è mai capitata l'occasione di..."
"Io invece me la sento!" esclamò il giovane Carrera, arrivando in officina.
Suo padre scrollò le spalle. "Ciara, a tuo rischio e pericolo!"
E così, la mia piccola Valiant era chiusa in quell'officina da quasi due settimane e sentivo come e mi mancasse un braccio o una gamba. Fin da piccola giocavo con le mie macchine e guardavo programmi su motori con mio padre, al posto di giocare con le Barbie e guardare Sailor Moon.
Ma ora ero a piedi...
Mi piaceva camminare, adoravo fare attività fisica, ma con tutta la neve che era caduta e che non accennava a sciogliersi, liberando la mia cittadina rinascimentale, stavo iniziando a cambiare idea.
Dopo quasi mezz'ora di camminata - avevo pronosticato un'ora, ma ci avevo messo metà tempo - arrivai in Piazza Grande.
Il mondo era totalmente bianco e silenzioso.
L'odore di neve, malgrado tutti gli inconvenienti, mi piaceva - anche se la mia migliore amica Celeste mi ripeteva che la neve era inodore - e guardando la Piazza dipinta di bianco, fui colta da una sensazione di pace. Camminai verso il centro della piazza, dando le spalle al portone chiuso del Palazzo del Comune e fissai davanti a me.
Tutto bianco. Perfetto ed intatto, finché qualcosa attirò la mia attenzione.
Una sagoma indistinta si mimetizzò tra la neve ancora immacolata, non deturpata dalle orme umane.
La sagoma si mosse così velocemente che quasi mi chiesi se non fosse stato uno scherzo visivo o solo la mia immaginazione. Mi strofinai gli occhi e non la vidi più.
"Sicuramente me lo sarò immaginato" confermai a me stessa. Mi girai e m'incamminai verso il bar.
Fuori dalla porta trovai Ivonne, la mia collega di lavoro.
"Ciara!" salutò ad alta voce, tanto che ci fu quasi l'eco.
Andai a darle tre baci sulle guance per salutarla. Lei aspirò l'ultimo tiro di sigaretta e si aggiustò i gonfi capelli biondi, cotonati stile Madonna anni '80. Mentre chiacchieravamo, giocavo con la neve spostandola col piede.
"Attenta che c'è del ghiaccio!" esclamò Ivonne, ma era troppo tardi. Avevo toccato una lastra di ghiaccio e stavo scivolando. Tentai di aggrapparmi a lei, ma a sorreggermi fu qualcos'altro. O meglio qualcun'altro.
Io, Ivonne e lo sconosciuto che mi teneva tra le braccia restammo per un attimo in silenzio, un silenzio che aveva lo stesso suono della neve che stava ricominciando a cadere.
"Tutto bene?" domandò lo sconosciuto.
Mi rialzai da sola e lui mi lasciò andare. La bocca di Ivonne formò una piccola O.
"Sì, grazie" biascicai. La mia voce suonava trascinata.
Il ragazzo davanti a me era vestito di nero, con una sciarpa annodata al collo. La sua pelle era chiara, quasi bianca come la neve che ci circondava. Aveva i capelli neri e due occhi azzurri come il ghiaccio. Incarnava perfettamente un dio delle nevi, uscito da chissà quale posto ultraterreno.
Lui sorrise ed entrò nel bar, sena aggiungere altro.
Io ed Ivonne lo seguimmo con lo sguardo e poi ci fissammo.
"Che gnocco!" si lasciò sfuggire lei.
"Puoi dirlo forte!"
"CHE GNOCCO!" urlò e la sua voce rimbombò nel silenzio di Piazza Grande.
Scoppiammo a ridere.
La voglia di sapere chi fosse quel ragazzo iniziò a punzecchiarmi.
Alle 21.55 entrammo nel bar e lasciai vagare lo sguardo finché non lo trovai: il ragazzo era seduto in un angolo del bar e fissava davanti a sé un punto non definito. Appoggiata al balcone guardavo dalla sua parte, sorreggendomi la testa con una mano sotto al mento. Il bar era vuoto, com'era previsto visto il freddo pungente di quella sera. Solo dei pazzi sarebbero usciti con tutta quella neve!
Ivonne mi diede una gomitata.
"Hai visto? Non ha ordinato nulla"
"Forse sta aspettando qualcuno"
"O forse sta aspettando che tu" enfatizzò il soggetto "vada a chiedergli se vuole qualcosa da bere"
Mi girai verso Ivonne e la guardai. Aveva un sorriso beffardo sul viso. Mi bagnai le labbra e annuii.
Arrivai al suo tavolo col cuore accelerato. Era tanto bello che quasi mi vergognavo a guardarlo.
"Posso portarti qualcosa?"
Il ragazzo alzò il viso e mi guardò. I suoi occhi azzurri erano così chiari da sembrare trasparenti.
"No, grazie"
"Aspetti qualcuno?" azzardai a domandare.
Lui sorrise. "Forse" e mi guardò fisso negli occhi.
Innervosita, lasciai cadere il mio sguardo dai suoi occhi e mi soffermai a fissare, quasi concentrata, attorno alla sua nuca. Ma non vidi nulla.
Feci un passo indietro e con un mezzo sorriso mi allontanai da lui, mentre quest'ultimo continuava a fissarmi.
Tornai dietro al bancone e mi appoggiai con la schiena al legno di mogano, dando le spalle ai tavoli. Dando le spalle a lui.
Perché guardando la sua figura non vedevo nulla? Non trovavo una risposta esauriente. Forse avrei dovuto chiedere spiegazioni a mia nonna...
"Allora?" domandò Ivonne, muovendo la testa verso la direzione del ragazzo.
Tornai al presente.
"Be', gli ho chiesto se voleva qualcosa e ha detto freddamente 'No grazie'" imitai il suo tono di voce, ma ne venne fuori una storpiatura. "E poi gli ho chiesto se stava aspettando qualcuno e lui ha risposto 'Forse'". Questa volta imitai la sua voce con disprezzo.
Ivonne ridacchiò. "Non hai capito che lo sta facendo apposto? Ho visto come ti fissava!"
Alzai il viso, dubbiosa. "Come?! A fare cosa?"
"Ci sta provando con te, ma tu sei ancora acerba in queste cose!" esclamò con un tono da donna vissuta, che non le si addiceva, soprattutto perché aveva solo cinque anni in più di me.
Le tirai una spinta con la spalla, che lei scansò abilmente.
"Allora perché non vai tu da lui così ci provi, visto che io sono acerba in queste cose?" le feci il verso.
Ivonne alzò la mano sinistra e me la fece oscillare davanti al naso.
"Perché io sono sposata" e andò nel magazzino sul retro.
"Esistono le corna!" risposi ad alta voce, ma lei era già sparita.
Sospirai e mi girai verso i tavoli, ma il ragazzo dai capelli neri era sparito.
"Ma dove..."
Fissai il bar vuoto e mi sentii vuota anche io.
Con mano tremante, presi in mano il coltello stringendolo forte per il manico.
Mi avvicinai ai tre lupi e istantaneamente il lupo bianco mi guardò con i suoi occhi azzurro ghiaccio.
"Come faccio?" domandai a me stessa "COME FACCIO?"
Primo capitolo
La prima nevicata invernale a Montepulciano - cittadina Toscana circondata da cinta murarie e fortificazioni datata intorno al 1500 - dopo anni di inverni miti, si presentò inaspettata e molto abbondante.
Si formarono strato di ghiacciaio, per colpa della bassa temperatura, che rendevano scivolosi i marciapiedi, le pendenze e le scalinate dei palazzi in Piazza Grande.
I bambini erano eccitati: di pomeriggio tiravano fuori gli slittini colorati, usati nelle loro vacanze in montagna - qui non nevicava quasi mai - e a coppie scendevano le ripide discese del Corso.
Era quasi impossibile arrivare a piedi in centro, percorrendo le antiche salite ripide. Eppure quella sera dovetti percorrere quasi tutta la strada a piedi - gli autobus che portavano in Piazza Grande dopo le 20.00 non viaggiavano più. Tantomeno con la neve.
Lavoravo nel bar accanto al Palazzo Comunale e il mio turno iniziava ogni sera alle 22.00; questo voleva dire che per arrivare in orario ero partita, quella sera, circa un'ora prima da casa mia, per camminare lentamente nei miei Moon Boot azzurri ed evitare di rompermi l'osso del collo.
Vivevo con mia nonna Lisa da quando i miei genitori si erano trasferiti in America. Mia madre Stella era toscana, ma mio padre Steven era del New Jersey. Si erano conosciuti a Tijuana in Messico, entrambi in vacanza, e da quell'amore nacqui io.
Dopo essersi spostati a Las Vegas e dopo la mia nascita, mia madre decise di tornare in Italia e mio padre la seguì: si sposarono anche in Toscana.
Per quanto mi riguarda, avevo visto l'America solo dall'interno del ventre materno, quindi era come se non la conoscessi. Avevo deciso di restare a Montepulciano con mia nonna materna. Io l'adoravo e lei adorava me.
Mia madre, casalinga frustrata, aveva insistito fino allo stremo delle sue forze psichiche purché li seguissi in America: mio padre, psicoterapeuta, era riuscito a trovare lavoro in un centro di detenzione minorile a Belvidere, nel New Jersey - da anni bramava quel lavoro - e voleva trasferirsi. Mia madre voleva seguirlo naturalmente, ma io no. Sentivo che il New Jersey non era casa mia. Montepulciano sì.
"Tesoro, tuo padre può finalmente ritornare nella sua città. Lui ha rinunciato a tutto per noi due e tu vuoi restare qui? Il New Jersey ti piacerà! Potresti anche iscriverti al college, ad Oxford. Noi ci trasferiamo proprio nelle vicinanze di quella città. Hai 17 anni e papà potrebbe..."
Zittii mia madre in un istante, mentre mia nonna ci guardava discutere sogghignando.
"Mamma, ti ho detto che voglio rimanere qui con la nonna. L'America per me è sconosciuta, non importa che io abbia mezzo sangue americano e che sia nata nella patria del gioco d'azzardo. Ho vissuto per 17 anni qui e non intendo andare al College o all'università che sia. Voglio diventare indipendente e vivere qui, solo grazie alle mie forze!"
Il discorso era perfetto. Avevo una certa predilezione nel chiarire le mie posizioni: mio padre diceva sempre che avrei potuto fare qualsiasi lavoro volessi. Secondo lui avrei potuto anche entrare in politica. Idea che a me faceva solo ridere.
Lui arrivò alle mie spalle e mi baciò la nuca, accarezzandomi i capelli mossi. Lo guardai con i miei occhi grigioblu, occhi ereditati da lui, con cui mi ricambiò l'occhiata. Somigliavo molto a mio padre. A parte gli occhi dello stesso colore, ero mora come lui, dalla corporatura snella e molto alta. Non arrivavo al metro e ottantacinque di mio padre, ma comunque sfioravo il metro e settantacinque. Ero stata la più alta della classe fin dalle elementari e sia nei banchi che nelle file per andare in mensa, ero sempre l'ultima in fondo.
Mia madre diceva che sembravo molto americana, a parte la carnagione chiara che avevo preso da lei. Mi ripeteva che ero stata contaminata dalla sua parte toscana che odiava, ma io quella parte toscana l'amavo.
"Stella, se Ciara vuole rimanere qui, non vedo perché tu debba opporti. È grande e tra poco diventerà maggiorenne, quindi può decidere da sola" mio padre mi strinse per la vita e mi baciò ancora la nuca "Se tua madre non ha nulla in contrario, rimarrà con lei a Montepulciano"
Mio padre viveva da così tanto tempo in Italia, che il suo accento del New Jersey era sparito, lasciando spazio a quello toscano.
Mia madre restò inebetita - per una volta mio padre le era andato contro - e fissò sua madre con sguardo acido. Mia nonna, che era rimasta seduta accanto al caminetto del soggiorno, alzò il viso dai ferri da maglia, con cui stava facendo una sciarpa e fissò prima me, poi mio padre ed infine si soffermò su mia madre, che sembrava volesse incenerirla con lo sguardo.
"Santi lumi, Stella! La tua aura è davvero scura!"
Io e mio padre ridemmo sotto i baffi. Ero sicura che mia nonna non avrebbe detto di no.
"Ciara può rimanere con me per tutto il tempo che vuole, o comunque finché io avrò aria nei polmoni"
Mi staccai da mio padre e corsi verso mia nonna.
"Nonna, ti adoro!"
Sentii mia madre borbottare imprecazioni a bassa voce e poi, dopo aver fatto un grosso respiro, rispose: "Sono sicura che sarai tu a seppellirci tutti!" e detto questo uscì dal soggiorno, seguita da mio padre che, prima di uscire dalla stanza, ci fece l'occhiolino.
"Cavolo, era davvero nera!" dissi a mia nonna quando restammo sole.
Mia nonna scostò dalla spalla i suoi lunghi e ondulati capelli - simili ai miei, se non fosse per il colore grigio che ora avevano i suoi - e sorrise.
"Forse non proprio nera, lei è una persona buona, ma era molto arrabbiata" e sospirò "Le passerà, semplicemente perché ti vuole bene".
E così eccomi dopo quasi cinque anni a Montepulciano, con due lavori e una vita normale vivendo con mia nonna materna.
La casa era fuori dalle cinte murarie, vicino a Sant'Albino e quasi in campagna, quindi per raggiungere il centro dovevo usare i mezzi di trasporto o la mia auto.
Quella sera di Gennaio, mi aveva dato un passaggio il marito della mia vicina di casa fino all'autostazione e poi avevo fatto a piedi il resto della strada. C'era il divieto di transito alle auto senza permesso, nel centro di Montepulciano. Il Sindaco diceva: "Per diminuire lo smog" ma io ci credevo poco.
La mia auto era ferma all'officina Carrera. Paolo, il meccanico, non aveva il coragio di mettere le mani sulla mia auto americana, quindi nei pomeriggi liberi ci provavo io con l'aiuto di suo figlio Silvio. Un ragazzo alla mano e molto premuroso nei miei confronti.
Paolo, quando avevo portato la mia Plymotuh Valiant color carta da zucchero - un regalo esoso di mio padre per i miei 18 anni - aveva sgranato gli occhi e il suo viso aveva cambiato colore: da rosa pallido a rosso vinaccia.
"Ma è davvero una..."
"Playmouth Valiant del 1976, direttamente dalla Contea di Warren, nel New Jersey?" finii la sua domanda, notando che gli si era quasi annodata la lingua dall'emozione "Certo che lo è!"
Paolo iniziò a guardarla da cima a fondo, come se fosse un quadro mai visto del Botticelli. Anche se la sua espressione sembrava ricordare "L'urlo" di Munch.
"E cosa gli è successo?"
"Carburatore se non sbaglio, poi freni che non vanno come dovrebbero e qualche pistone o bobina..."
Paolo smise di fissare la mia auto e iniziò a fissare me.
"Oh Ciara, io non me la sento di mettere le mani su un veicolo del genere. Insomma, non mi è mai capitata l'occasione di..."
"Io invece me la sento!" esclamò il giovane Carrera, arrivando in officina.
Suo padre scrollò le spalle. "Ciara, a tuo rischio e pericolo!"
E così, la mia piccola Valiant era chiusa in quell'officina da quasi due settimane e sentivo come e mi mancasse un braccio o una gamba. Fin da piccola giocavo con le mie macchine e guardavo programmi su motori con mio padre, al posto di giocare con le Barbie e guardare Sailor Moon.
Ma ora ero a piedi...
Mi piaceva camminare, adoravo fare attività fisica, ma con tutta la neve che era caduta e che non accennava a sciogliersi, liberando la mia cittadina rinascimentale, stavo iniziando a cambiare idea.
Dopo quasi mezz'ora di camminata - avevo pronosticato un'ora, ma ci avevo messo metà tempo - arrivai in Piazza Grande.
Il mondo era totalmente bianco e silenzioso.
L'odore di neve, malgrado tutti gli inconvenienti, mi piaceva - anche se la mia migliore amica Celeste mi ripeteva che la neve era inodore - e guardando la Piazza dipinta di bianco, fui colta da una sensazione di pace. Camminai verso il centro della piazza, dando le spalle al portone chiuso del Palazzo del Comune e fissai davanti a me.
Tutto bianco. Perfetto ed intatto, finché qualcosa attirò la mia attenzione.
Una sagoma indistinta si mimetizzò tra la neve ancora immacolata, non deturpata dalle orme umane.
La sagoma si mosse così velocemente che quasi mi chiesi se non fosse stato uno scherzo visivo o solo la mia immaginazione. Mi strofinai gli occhi e non la vidi più.
"Sicuramente me lo sarò immaginato" confermai a me stessa. Mi girai e m'incamminai verso il bar.
Fuori dalla porta trovai Ivonne, la mia collega di lavoro.
"Ciara!" salutò ad alta voce, tanto che ci fu quasi l'eco.
Andai a darle tre baci sulle guance per salutarla. Lei aspirò l'ultimo tiro di sigaretta e si aggiustò i gonfi capelli biondi, cotonati stile Madonna anni '80. Mentre chiacchieravamo, giocavo con la neve spostandola col piede.
"Attenta che c'è del ghiaccio!" esclamò Ivonne, ma era troppo tardi. Avevo toccato una lastra di ghiaccio e stavo scivolando. Tentai di aggrapparmi a lei, ma a sorreggermi fu qualcos'altro. O meglio qualcun'altro.
Io, Ivonne e lo sconosciuto che mi teneva tra le braccia restammo per un attimo in silenzio, un silenzio che aveva lo stesso suono della neve che stava ricominciando a cadere.
"Tutto bene?" domandò lo sconosciuto.
Mi rialzai da sola e lui mi lasciò andare. La bocca di Ivonne formò una piccola O.
"Sì, grazie" biascicai. La mia voce suonava trascinata.
Il ragazzo davanti a me era vestito di nero, con una sciarpa annodata al collo. La sua pelle era chiara, quasi bianca come la neve che ci circondava. Aveva i capelli neri e due occhi azzurri come il ghiaccio. Incarnava perfettamente un dio delle nevi, uscito da chissà quale posto ultraterreno.
Lui sorrise ed entrò nel bar, sena aggiungere altro.
Io ed Ivonne lo seguimmo con lo sguardo e poi ci fissammo.
"Che gnocco!" si lasciò sfuggire lei.
"Puoi dirlo forte!"
"CHE GNOCCO!" urlò e la sua voce rimbombò nel silenzio di Piazza Grande.
Scoppiammo a ridere.
La voglia di sapere chi fosse quel ragazzo iniziò a punzecchiarmi.
Alle 21.55 entrammo nel bar e lasciai vagare lo sguardo finché non lo trovai: il ragazzo era seduto in un angolo del bar e fissava davanti a sé un punto non definito. Appoggiata al balcone guardavo dalla sua parte, sorreggendomi la testa con una mano sotto al mento. Il bar era vuoto, com'era previsto visto il freddo pungente di quella sera. Solo dei pazzi sarebbero usciti con tutta quella neve!
Ivonne mi diede una gomitata.
"Hai visto? Non ha ordinato nulla"
"Forse sta aspettando qualcuno"
"O forse sta aspettando che tu" enfatizzò il soggetto "vada a chiedergli se vuole qualcosa da bere"
Mi girai verso Ivonne e la guardai. Aveva un sorriso beffardo sul viso. Mi bagnai le labbra e annuii.
Arrivai al suo tavolo col cuore accelerato. Era tanto bello che quasi mi vergognavo a guardarlo.
"Posso portarti qualcosa?"
Il ragazzo alzò il viso e mi guardò. I suoi occhi azzurri erano così chiari da sembrare trasparenti.
"No, grazie"
"Aspetti qualcuno?" azzardai a domandare.
Lui sorrise. "Forse" e mi guardò fisso negli occhi.
Innervosita, lasciai cadere il mio sguardo dai suoi occhi e mi soffermai a fissare, quasi concentrata, attorno alla sua nuca. Ma non vidi nulla.
Feci un passo indietro e con un mezzo sorriso mi allontanai da lui, mentre quest'ultimo continuava a fissarmi.
Tornai dietro al bancone e mi appoggiai con la schiena al legno di mogano, dando le spalle ai tavoli. Dando le spalle a lui.
Perché guardando la sua figura non vedevo nulla? Non trovavo una risposta esauriente. Forse avrei dovuto chiedere spiegazioni a mia nonna...
"Allora?" domandò Ivonne, muovendo la testa verso la direzione del ragazzo.
Tornai al presente.
"Be', gli ho chiesto se voleva qualcosa e ha detto freddamente 'No grazie'" imitai il suo tono di voce, ma ne venne fuori una storpiatura. "E poi gli ho chiesto se stava aspettando qualcuno e lui ha risposto 'Forse'". Questa volta imitai la sua voce con disprezzo.
Ivonne ridacchiò. "Non hai capito che lo sta facendo apposto? Ho visto come ti fissava!"
Alzai il viso, dubbiosa. "Come?! A fare cosa?"
"Ci sta provando con te, ma tu sei ancora acerba in queste cose!" esclamò con un tono da donna vissuta, che non le si addiceva, soprattutto perché aveva solo cinque anni in più di me.
Le tirai una spinta con la spalla, che lei scansò abilmente.
"Allora perché non vai tu da lui così ci provi, visto che io sono acerba in queste cose?" le feci il verso.
Ivonne alzò la mano sinistra e me la fece oscillare davanti al naso.
"Perché io sono sposata" e andò nel magazzino sul retro.
"Esistono le corna!" risposi ad alta voce, ma lei era già sparita.
Sospirai e mi girai verso i tavoli, ma il ragazzo dai capelli neri era sparito.
"Ma dove..."
Fissai il bar vuoto e mi sentii vuota anche io.
Allora che ve ne pare di questa segnalazione?
Fatemelo sapere nei commenti!
Grazie ;)
RispondiElimina